La comunità scientifica è molto interessata allo studio del cannabidiolo (CBD) in ambito neuroscientifico. Il motivo di tale interesse è la particolare azione neuroprotettiva che un CBD di alta qualità potrebbe esercitare in base ai primi - incoraggianti - risultati derivati da studi condotti sia in vitro e su animali che su alcuni esseri umani.
Il cannabidiolo, infatti, ha dimostrato avere una potenziale azione di riduzione dello stress ossidativo che può colpire le cellule cerebrali.
Questa caratteristica lo renderebbe un potenziale trattamento nell’ambito di alcune note malattie neurodegenerative, come la malattia di Parkinson o il morbo di Alzheimer.
Per malattie neurodegenerative si intende un gruppo molto vasto e vario di patologie degenerative che colpiscono il sistema nervoso centrale e che, in genere, hanno come caratteristica comune un processo di morte cellulare dei neuroni.
Il perché della ricerca sul ruolo neuroprotettivo del CBD
Uno dei primi studi sul potenziale neuroprotettivo del cannabidiolo è stato pubblicato nel 1998 su Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS). Nell’indagine, l’azione del cannabidiolo è stata esaminata in colture di neuroni corticali di topi.
In questo contesto, il cannabidiolo, ha dimostrato di avere un’azione antiossidante. I dati suggerivano anche che il cannabidiolo, potesse essere un agente terapeutico potenzialmente utile per il trattamento di disturbi neurologici ossidativi come l'ischemia cerebrale.
Anni dopo, nel 2004, è stato pubblicato uno studio condotto dai ricercatori del Dipartimento di Farmacologia Sperimentale dell’Università di Napoli Federico II che mirava proprio a comprendere quale potesse essere l’impatto del cannabidiolo sullo stess ossidativo. I ricercatori hanno replicato, in vitro, alcuni scenari d’intervento del cannabidiolo.
I risultati, pubblicati sul Journal of Neurochemistry, hanno dimostrato che il CBD ha avuto una serie di effetti più che positivi per quanto riguarda la neuroprotezione e l’azione antiossidante. Nel caso di malattie neurodegenerative specifiche, come nel caso della sindrome di Alzheimer, alcuni risultati “singoli” hanno portato la comunità scientifica a valutare l’impiego del cannabidiolo.
Il CBD, infatti, grazie alle sue proprietà antinfiammatorie, potrebbe attenuare le risposte neuroinfiammatorie prodotte dall’accumulo della proteina da cui si scatena la malattia. La perdita di cellule neuronali è alla base del declino patologico delle capacità cognitive della memoria associato alla malattia di Alzheimer.
Uno studio del 2010 condotto dai ricercatori del Dipartimento di Fisiologia del Trinity College di Dublino ha identificato il ruolo neuroprotettivo degli endocannabinoidicontro alcune patologie cerebrali, compresa la morte cellulare per apoptosi: una forma di morte cellulare programmata.
Lo studio ha fornito la prova che il sistema endocannabinoide può stabilizzare i lisosomi contro la permeabilizzazione indotta dalle proteine beta-amiloidi, e contribuire di conseguenza alla sopravvivenza cellulare. L’efficacia del cannabidiolo (CBD) in ambito neurologico deriverebbe da una combinazione di azioni neuroprotettive e antinfiammatorie.
Da segnalare, nel caso della sindrome di Alzheimer, uno studio del 2016, condotto al Salk Institute di San Diego, California, con il National Institute of Health, l’agenzia del Ministero della Salute, e della Alzheimer Association, che ha presentato un interessante meccanismo di azione del Tetraidrocannabinolo (THC), l’altro principio attivo della pianta di cannabis.
Il gruppo di ricerca coordinato da David Schubert ha studiato le cellule nervose che, alterate dalla malattia, producono alti livelli di beta amiloide e hanno scoperto che alti livelli di beta amiloide erano associati con l'infiammazione cellulare e tassi più elevati di morte dei neuroni.
Forti di queste evidenze i ricercatori si sono spinti oltre e hanno dimostrato che l'esposizione delle cellule al THC ha ridotto drasticamente i livelli della proteina beta amiloide ed eliminato la risposta infiammatoria delle cellule nervose causata dalla proteina, permettendo così alle cellule nervose di sopravvivere.
CBD e malattie neurodegenerative. Agli albori della ricerca
I risultati fin ora presentati in questo articolo sono solo una parte del vasto insieme di pubblicazioni rilasciate dai ricercatori di tutto il mondo in questo ambito.
Tuttavia si tratta, in molti casi, di conclusioni a cui si è giunti a seguito di studi condotti su modelli animali o direttamente in vitro. Gli studi che hanno preso in considerazione un campione consistente di esseri umani sono ancora pochi.
Per spiegare allora il motivo di questa insistenza della ricerca nell’indagare l’azione neuroprotettiva del CBD, bisogna considerare questa associazione tra gli ottimi risultati degli studi preclinici e gli articoli medici che descrivono i benefici del cannabidiolo in casi di singoli pazienti.
Si tratta di evidenze aneddotiche che vengono divulgate sempre più numerose, grazie anche al lavoro delle associazioni dei pazienti affetti da queste particolari patologie, particolarmente attive nel sostenere con grande impegno la ricerca sulla cannabis a uso medico.
Uno dei - tanti - casi di efficacia del CBD
Uno dei case-study più recenti riguarda la sperimentazione del cannabidiolo su un uomo israeliano di 81 anni, affetto da uno stato avanzato di demenza e soggetto a ricorrenti ictus, il fenomeno che si si verifica quando una scarsa perfusione sanguigna al cervello provoca la morte delle cellule.
Il paziente è stato preso in cura da due medici - Vered Hermush e Liora Ore, del Dipartimento di Geriatria del Laniado Hospital di Netanya, in Israele.
Al paziente era stata diagnosticata la demenza già nel 2012, a sette anni di distanza dal suo primo ictus e immediatamente dopo il suo secondo. Il paziente era ormai costretto in sedia a rotelle e necessitava di assistenza continua e quotidiana per svolgere anche le più basilari azioni.
A distanza di alcuni mesi da questo secondo ictus, il paziente era a stento capace di aprire gli occhi e di mantenere un contatto visivo con le persone che lo circondavano per più di qualche istante. Era inoltre incapace di parlare e presentava una grave spasticità agli arti.
In una condizione del genere, i medici dell’ospedale hanno deciso di intraprendere una terapia sperimentale a base di cannabidiolo.
Al paziente è stata somministrata una goccia di olio di cannabidiolo al 20% per tre volte al giorno per un periodo di una settimana, a cui è seguito periodo con un aumento della dose: 4 gocce per tre volte al giorno.
Nel giro di qualche giorno i medici hanno notato come il paziente mostrasse nuovi segni di attenzione, riuscendo anche a scandire alcune parole rivolto ai membri della sua famiglia.
A un mese di distanza dal trattamento, il paziente ha continuato ad essere più vigile, pronunciando qualche parola sporadicamente. La spasticità, inoltre, era molto diminuita.
I ricercatori, nella loro descrizione, hanno insistito sul considerare il cannabidiolo come un potenziale trattamento in casi come questo. In questo caso il ruolo del cannabidiolo va ben oltre quello di neuroprotettore.
Il principio attivo della pianta di cannabis è stato in grado di dare nuova dignità negli ultimi momenti di vita di una persona colpita da una condizione grave e debilitante.
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